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Immagine del redattoreAgostino Conte - Scrittore

AVV. CARLO TAORMINA: “PROVVEDO IO A DEPOSITARE UNA DENUNZIA CONTRO TUTTI I MAGISTRATI COINVOLTI”.

(dopo la dichiarazione dell'Avv. Carlo Taormina sono riportate le confessioni di Palamara a Sallustri). L’Avv. Carlo Taormina dalla sua pagina ufficiale dichiara:

“Questa magistratura è veramente tutta da cacciare. Dopo le confessioni di Palamara nelle chat, nel libro di Sallusti, nelle interviste rilasciate a Giletti, nessuno si muove e vertici marci e corrotti, nominati da una associazione a delinquere stanno al loro posto. "


"Nessuno si dimette nessuno apre in processo penale per corruzione, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico e traffico di influenze. I processi non si aprono perché dovrebbero aprirli gli stessi magistrati che hanno concorso in tutti i reati che ho indicato.

PROVVEDO IO A DEPOSITARE UNA DENUNZIA CONTRO TUTTI I MAGISTRATI COINVOLTI E CONTRO COLORO CHE FURONO E SONO MEMBRI DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E CHIEDERÒ L’INTERDIZIONE DALL’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI PER TUTTI I MAGISTRATI CHE SONO IN SERVIZIO SULLA BASE DEGLI ATTI NULLI PERCHÉ INTEGRANTI REATO CON I QUALI SONO STATI NOMINATI. DARO’ COMUNICAZIONE DELLA DATA DI DEPOSITO DELLA DENUNZIA ENTRO QUESTA SETTIMANA."



Le ”confessioni” di Palamara a Sallusti

Ecco come hanno cercato di distruggere Ingroia, Di Matteo, de Magistris e altri magistrati indipendenti

Giorgio Bongiovanni 27 Gennaio 2021

“Se sfidi il ‘Sistema’ sei fuori, indipendentemente dal fatto che tu abbia ragione o torto. E io lo so bene perché c’ero: in quel momento il Sistema ero io”. Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm radiato dall’ordine giudiziario per la prima volta nella storia della magistratura, intervistato da Alessandro Sallusti, racconta così, nel libro “Il Sistema-Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” (edito da Rizzoli), la sua verità.

Lo diciamo subito. Non sta a noi giudicare la totale o parziale veridicità del suo racconto e siamo certi che gli organi inquirenti che si apprestano a giudicarlo (la Procura di Perugia ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di corruzione) sapranno stabilire quanto siano veritiere o meno certe considerazioni. E se da una parte è legittimo interrogarsi sul perché lo stesso ex pm abbia deciso di vuotare il sacco proprio ora, possiamo sicuramente dire che vi sono diversi aspetti che possono essere ritenuti verosimili.

Palamara non si nasconde e ammette, nel libro, di far parte di un mondo perverso e nefasto in cui si evince il peso della politica accanto a quello delle correnti della magistratura. Un mondo che era già stato svelato da decine e decine di chat ed sms, acquisite tanto nelle indagini della magistratura di Perugia, quanto davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Racconta di un “Sistema” che avrebbe avuto il compito di attaccare Silvio Berlusconi in maniera indistinta, quando sono noti fatti e misfatti dell’ex Premier che oggi viene addirittura riproposto come possibile candidato alla più alta carica dello Stato.


Attacco alla magistratura libera Laddove tutto si mescola è possibile comunque che si ricavino frammenti di verità e nel complesso si può dire che per certi fatti, vi sono elementi forti di credibilità. Non c’era bisogno di Palamara per evidenziare che in questi anni vi sia stata una demolizione praticamente sistemica di tutti quei magistrati che non si sono allineati alle logiche di potere e delle correnti. Un elenco lungo di magistrati che in questi anni hanno vissuto denigrazioni, vessazioni e delle vere e proprie campagne di isolamento, così come avveniva anche ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ma dalle parole dell’ex magistrato romano si ricavano importanti conferme. Pensiamo in particolare ai casi di Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e Luigi de Magistris. Su quest’ultimo Palamara racconta quei risvolti che si sono consumati dietro le quinte dell’inchiesta “Why Not” che portò ad una vera e propria “class action” contro l’allora pm di Catanzaro. “de Magistris era all’epoca sconosciuto – ha ricordato Palamara – non apparteneva a nessuna corrente in modo organico, un cane sciolto che diventa il ‘cigno nero’, l’imprevisto che fa andare in tilt il sistema”. E poi ancora: “Mastella chiede al Csm di trasferirlo con provvedimento d’urgenza; il suo procuratore capo, Dolcino Favi, avoca a sé l’inchiesta e nottetempo fa scassinare la sua cassaforte per venire in possesso del fascicolo. Si muove anche la procura di Salerno, competente su Catanzaro, e tra le due finisce in rissa. (…) Il Csm apre un fascicolo che di lì a pochi mesi porterà al trasferimento di de Magistris, io mi consulto sia con i miei sia con il Quirinale. E succede che, per la prima volta nella sua storia, almeno recente, l’Anm prende le distanze dall’operato di un pubblico ministero. (…) de Magistris non era allineato, quel governo già debole di suo e argine contro le destre non poteva essere attaccato in quel modo (…) de Magistris ha ragione quando dice che un’azione punitiva di quel genere nei confronti di un magistrato non c’era mai stata”.


Ingroia nel mirino

In particolare rispetto ai due magistrati palermitani, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, nel libro si spiega come i due pm, titolari del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, siano stati considerati come una vera propria anomalia all’interno del Sistema di potere interno alla magistratura. Un Sistema che aveva un filo diretto con il Quirinale nel medesimo momento in cui emergeva la notizia dell’esistenza delle intercettazioni (ritenute dai pm che indagavano dal pool trattativa irrilevanti) tra il Capo dello Stato del tempo, Giorgio Napolitano, e l’allora indagato per falsa testimonianza, Nicola Mancino. Al tempo scoppiò un pandemonio. E Palamara racconta alcuni aspetti rilevanti su quel che accadde, confermando anche quanto disse Ingroia sul tentativo di “mediazione” che l’ex presidente dell’Anm portò avanti con lui.

“Mi accompagnano i miei colleghi palermitani della giunta dell’Anm – ha raccontato Palamara – Poi rimaniamo soli io e lui (Ingroia, ndr). Lo affronto a muso duro, resto colpito perché lo trovo molto preoccupato di rimanere isolato e allo stesso tempo sospettoso nei miei confronti. Gli spiego che a Roma il mondo politico e quello istituzionale sono irritati per i suoi modi spregiudicati, ma lui è irremovibile. Ci lasciamo con una stretta di mano. Oggi lui sostiene che io sia andato in nome e per conto del presidente Napolitano. Per quanto mi riguarda posso dire di aver agito in assoluta autonomia, anche se è vero che, una volta rientrato a Roma, sempre per il tramite di Loris D’Ambrosio, ho provato a mediare, ma senza esito: avevo immediatamente capito che per lui la strada ormai era segnata, come per tutti quelli che sfidano platealmente il ‘Sistema’. Diciamo che se l’è cercata, si è immedesimato nel ruolo del martire a tutti costi. E quando il martirio lo cerchi, addirittura lo costruisci, santo non sei. Voglio però spezzare una lancia in suo favore: i conti non mi tornano. Perché l’allora direttore di ‘Repubblica’ Ezio Mauro, tirato in ballo da Ingroia sulla vicenda in questione, ha pubblicamente dichiarato di non conoscermi quando il suo giornale costantemente mi intervistava per ottenere dichiarazioni contro il governo di centrodestra? Ciò mi lascia molto perplesso e mi fa pensare che su questo Ingroia abbia ragione”.

Il Sistema contro Di Matteo

Nel suo ragionamento Palamara più volte parla di “Sistema” e delle “anomalie” che si sono scontrate contro lo stesso. Vengono riportati episodi come quello di Clementina Forleo, Woodcock, Gabriella Nuzzi, ed altri.

Tra queste figure anche il magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura. E ci sono alcuni aspetti che meritano di essere approfonditi nel momento in cui Palamara spiega i motivi di tanti dinieghi ricevuti dal pm palermitano che fu eletto presidente dell’Anm di Palermo. In tutto il libro Sallusti allude a congiure contro l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (ovviamente tacendo di sentenze, inchieste e processi che parlano della sua vicinanza alla mafia), e Palamara, nelle sue ambiguità, rivela alcuni aspetti che a nostro parere possono essere importanti.

“Il ‘Sistema’ – aggiunge rispondendo a Sallusti – richiede equilibrio, gli eccessi, soprattutto se non concordati, non sono graditi. Tanto è vero che meno di due anni dopo, nel 2011, Di Matteo si dimette in segno di protesta per la mancata difesa da parte dell’Anm nazionale, cioè da parte mia, di Ingroia (che aveva subito l’ennesimo attacco, ndr) (…) Saltiamo al 2015, io sono appena arrivato al Csm e Di Matteo avanza la sua candidatura alla Direzione nazionale antimafia. La sostiene il nascente gruppo di Autonomia e Indipendenza, che fa capo a Piercamillo Davigo, ma è osteggiata per due motivi dalle correnti tradizionali. Il primo è che sarebbe stato opportuno che Di Matteo, per una questione di immagine e serietà, avesse lasciato Palermo solo dopo aver concluso il processo sulla trattativa. Il secondo è che nessuna delle tre correnti – Unicost, Area e Magistratura indipendente – era disposta a rinunciare al suo candidato, visto che i posti all’antimafia erano giusto tre. Io poi aggiungo un motivo più politico: non ritenevo utile portare fuori da Palermo le tensioni istituzionali provocate dall’operato di Di Matteo sulla trattativa”.


Palamara prova a scaricare le responsabilità su altri soggetti, appartenenti anche alle correnti di sinistra. Poi torna a parlare della candidatura alla Dna avanzata nel 2017 che, diversamente, fu accolta. Palamara affronta anche la vicenda dell’estromissione dal pool che indagava sulle stragi e sulla trattativa, revocata lo scorso ottobre, da parte del Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho.

La vicenda Bonafede-Di Matteo.

Nel suo “flusso di coscienza” un largo spazio viene dato alla mancata nomina di Di Matteo a capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede che virò clamorosamente su Francesco Basentini.

“Quando nel 2018 nasce il governo tra Cinque Stelle e Lega, nel mondo della magistratura si dà per scontato di vedere Di Matteo ministro della Giustizia, o comunque in un posto importante del ministero, capo di gabinetto o a capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che sovrintende al sistema carcerario. Parlando in quei giorni con la mia collega Maria Casola, che sta al ministero, ammetto che per la prima volta dopo anni ho la sensazione di trovarmi fuori dai giochi. Del resto è normale, è cambiato il mondo politico e toccherà ad altri dirigere il traffico. Ma l’attesa rivoluzione non accade. Con mia sorpresa per i posti chiave vedo spuntare persone non vicine, almeno in teoria, né a Davigo né a Di Matteo, ma a vario titolo alla mia corrente: da Fulvio Baldi, che diventa capo di gabinetto, all’oggi noto Francesco Basentini a capo del Dap (sarà costretto dopo pochi mesi alle dimissioni, travolto dalle polemiche sulle scarcerazioni facili, tra cui quelle di diversi pericolosi boss, durante la prima ondata dell’emergenza Covid)”.

Nell’intervista con Sallusti, Palamara ammette che “la mafia vorrebbe vedere Di Matteo morto, al punto che è l’uomo più protetto d’Italia”, poi, su quanto avvenne i primi di giugno 2018 riferisce della presenza di Giuseppe Pignatone, allora procuratore capo di Roma, nei corridoi del ministero. Dice Palamara: “Allora la domanda è: che ci faceva Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, capo del ‘partito dei procuratori’ che certo non ama Di Matteo e, come abbiamo già visto e ancor meglio vedremo in seguito, perno del famoso ‘Sistema’ che tutto regola e tutto decide, nelle stanze del ministero in quei giorni decisivi per le nomine? (…) Il capo del Dap non è solo colui che si occupa del vitto e alloggio dei detenuti. Il suo è un ruolo chiave, direi strategico, nella gestione della marea di informazioni captate, in un modo o nell’altro, dentro le carceri, soprattutto quelle che riguardano i detenuti mafiosi. Se durante un colloquio, un’intercettazione ambientale in cella, una soffiata tra detenuti, emerge l’ipotesi che il politico X o l’imprenditore Y sono collusi, il primo a saperlo è il capo del Dap, che quella notizia – anche quelle che trapelano dalle celle del 41 bis che ospitano i boss, tipo l’allusione che Totò Riina fece su Berlusconi durante l’ora d’aria – la gestisce come meglio crede. Un potere giudiziario e politico enorme – oltre che ben remunerato – concentrato nelle mani di una sola persona, che nel caso di Di Matteo è pure una persona fuori dal ‘Sistema’ e quindi incontrollabile. Di Matteo, questa è la mia tesi, per evitare altri guai, non è stato fermato né da Bonafede né tantomeno dalla mafia, ma dal famoso ‘Sistema’ che non voleva perdere il controllo della situazione”.

Quindi aggiunge: “Bonafede è un politico che per la prima volta si trova a maneggiare un mondo complesso come il nostro, e inevitabilmente è portato a dare fiducia a una cerchia ristretta di persone, e diciamo pure un sognatore che dall’oggi al domani si è trovato al centro di giochi di potere più grandi di lui. In assoluta buona fede – immagino – telefona al grande Di Matteo, mito suo e dei suoi elettori, e gli chiede di entrare in partita. Quando il ‘Sistema’ lo viene a sapere, lo avvicina e tra lusinghe e allusioni lo riporta con i piedi per terra: ministro, non hai capito come funziona il mondo. “E quindi dalla mattina alla sera Bonafede molla Di Matteo e per il Dap va su Basentini” chiede Sallusti. E Palamara risponde: “Che, detto con rispetto, è come, nel calcio, mollare Ronaldo per Mario Rossi”. E poi ancora: “Le sto dicendo che qualcuno ha stoppato Bonafede su Di Matteo e che il ministro, messo alle strette e non sapendo per inesperienza a che santo votarsi, si è fidato e affidato a una ristretta cerchia di persone, con i risultati che purtroppo ben conosciamo”. Di questi fatti ci siamo occupati più volte e abbiamo anche ricostruito la vicenda. Per questo diciamo che il racconto di Palamara può essere quantomeno verosimile. Certo è che siamo totalmente all’antitesi quando Palamara sostiene, arrogantemente e sbagliando clamorosamente, che nel 2019 Di Matteo si è candidato legandosi alle correnti.

Non è corretta come affermazione tenuto conto che il magistrato palermitano si è candidato da indipendente. E’ vero che a sostenerlo è stata la corrente di Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, Autonomia e Indipendenza, ma va comunque detto che alle elezioni suppletive raccolse 1184 voti, molti dei quali provenienti da giovani magistrati che non avevano nulla a che fare con le logiche correntizie, convinti proprio dall’autonomia e indipendenza che lo stesso Di Matteo ha dimostrato di applicare in questo anno di lavoro al Csm. Un’indipendenza testimoniata ancor di più, se mai ce ne fosse bisogno, dalle feroci critiche che ancora oggi lo coinvolgono dai settori della politica di destra, centro e sinistra, nonché di molte correnti della magistratura.

E proprio la professionalità e la serietà hanno probabilmente convinto il Procuratore nazionale antimafia de Raho ad annullare quell’assurdo provvedimento con cui aveva estromesso Di Matteo dal pool stragi.

Se guardiamo complessivamente le dichiarazioni di Palamara è chiaro che esse appaiono sconcertanti ed inquietanti nella misura in cui si parla di una commistione tra politica e magistratura svelata nelle parole di uno dei suoi protagonisti. Ovviamente ci aspettiamo che siano sottoposte al vaglio degli organi inquirenti e dello stesso Consiglio superiore della magistratura. Intanto, però, ciò che emerge è la conferma dell’esistenza di un sistema perverso ed infernale. Se così dovesse essere sarebbe l’ennesimo riscontro, ma non l’unico, rispetto a quanto abbiamo sostenuto in questi anni: i primi nemici di quei magistrati che vogliono la verità sulle stragi e che non hanno il timore di guardare in faccia al potere, indagandolo ed inquisendolo nel momento in cui si commettono reati, sono all’interno della magistratura stessa.

Basta guardare alla storia, alla lunga serie di stillicidi commessi contro Giovanni Falcone, con mancate nomine a consigliere istruttore, a procuratore del tribunale di Palermo e ad alto commissario antimafia e Paolo Borsellino. Anche loro furono messi sotto provvedimento disciplinare così come nel recente passato è capitato a magistrati come Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Luigi De Magistris, lo stesso Di Matteo e tanti altri. L’esistenza di un Sinedrio inquisitorio che attaccava, ostacolava e giudicava i migliori magistrati e servitori che lo Stato aveva in seno, anziché proteggerli e sostenerli. Oggi c’è un vento nuovo, dal Csm alle Procure in Italia, con una magistratura che è stata capace di processare sé stessa. La politica, diversamente, mai! Come sempre, cane non mangia cane!




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